domenica 22 febbraio 2009

East Africa - bastoni e staffe

















I bastoni, sia come strumento da combattimento sia come insegna di status sociale, sono oggetti molto diffusi nelle società pastorali dell'Africa dell'Est. In questa scheda presentiamo quattro esemplari, molto lineari e semplici nelle forme ma dotati di una buona patina d'uso.
Il primo dall'alto è un randello da combattimento dei Dinka, del Sudan; l'arma veniva utilizzata sia "di taglio", come una clava, sia di punta, vista la sua linea affusolata che termina appunto con una estremità appuntita, capace di fare danni anche gravi se proiettata con forza contro un obiettivo. La presenza però di elementi decorativi su tutta la superficie, un motivo inciso e colorato con una sostanza bianca, forse caolino, fa pensare che questo bastone fosse anche, e forse soprattutto, un oggetto di prestigio. E' arrivato in Europa da Sudan attraverso l'Uganda ed è lungo 86 cm.
Il secondo bastone, anche questo con funzioni di arma, viene dalla popolazione Gogo della Tanzania centrale ed è detto nella loro lingua "rungu". Contrariamente ai knobkerries del Sudafrica, in questo caso il nodo di legno pesante che costituisce la parte percussiva destinata a colpire il bersaglio non è in posizione centrale bensì laterale e forma una sorta di "ginocchio" per martellare i nemici. Questo bastone, lungo circa 50 cm., è stato acquistato negli anni '90 nella galleria belga di Lavuun Quackelbeen, specializzata in oggetti della zona in questione.
Anche il terzo bastone, nonostante la sua esile costituzione che farebbe pensare piuttosto ad una staffa, è un oggetto destinato alla difesa personale: viene dalla popolazione del Kenia dei Turkana ed è denominato "aburo"; il suo uso "reale" più frequente è però quello di "pastorale" utilizzato per governare il gregge di pecore e capre. E' lungo 120 cm. ed è stato raccolto vicino al villaggio di Lodwar, vicino al lago Turkana, negli anni '70; si evidenzia per l'impugnatura centrale di pelle di rettile.
Il quarto ed ultimo bastone, certamente il più semplice del gruppo, viene invece dalla popolazione Marakwet del sud-ovest del Kenia; anche questo viene denominato "rungu" ed ha sia funzioni di arma che di oggetto di status sociale. E' alto 60 cm. Anche questo oggetto è stato raccolto in situ negli anni '70.
Io ho acquistato tutti e quattro i bastoni, in tempi diversi, dal collezionista tedesco Wolf Dieter Miersch.
Bibliografia:
1) Marakwet & Turkana
Günther Best - Museum für Völkerkunde, Frankfurt am Main, 1993
2) Africa. Arte delle forme
Marc Ginzberg - Skira, Ginevra-Milano, 2000

sabato 21 febbraio 2009

Sud Africa - Knobkerries e staffe
















Nei musei e tra i collezionisti di arti extraeuropee c'è da tempo un dibattito, che a volte si fa così acceso da risultare una diatriba, tra coloro che considerano "arte" solo le sculture antropomorfe o zoomorfe e le maschere rituali, escludendo quindi tutti gli altri oggetti di cultura materiale, considerati solo in termini di reperti etnografici e includendo solo "casi particolari" come le coppe Kuba, che hanno una particolare dovizia di intaglio, e coloro che invece includono nella produzione a valenza estetica e artistica anche gli oggetti d'uso. In particolare certi appoggiatesta, con particolari sculturali o ornamenti geometrici, certe puleggie da telaio, certe serrature, certi pettini sono stati i primi ad essere annoverati tra le opere "d'arte" e solo in anni abbastanza recenti anche gli oggetti di uso comune, se dotati di oggettive valenze estetiche, sono stati riconosciuti come oggetti estetici, se non proprio d'arte almeno di "design" artistico.
I bastoni africani, contrariamente a quelli dell'arte oceanica, area in cui sono una manifestazione primaria e da lungo tempo acclamata di produzione estetica, sono sempre stati un po' trascurati: considerati a volte nell'ambito delle armi, a volte annoverati nel genere degli strumenti di uso quotidiano, non sono finora riusciti neppure ad avere il riconoscimento di una pubblicazione specializzata di assoluto riferimento scientifico. Tra i pochi tipi che hanno fatto qualche esito collezionistico, ci sono i sudafricani Knobkerries, delle popolazioni Zulu, Swazi e Nguni.
Il termine "knobkerrie" deriva dall' Afrikaans "knopkierie" che risulta dalla fusione della parola "knop" o "knob" (dal Middle Dutch "cnoppe") che vuole dire "nodo" insieme al termine "kieri" (derivante dalla parola Khoikhoin "kirri"), che vuole dire "bastone". Insomma il Knobkerrie, tipica arma bianca delle popolazioni del Sudafrica, con la quale gli Zulu hanno tenuto testa a fine Ottocento al potente esercito inglese armato di fucili e baionette, è un bastone nodoso, bilanciato a puntino per essere maneggevole e leggero ma dannoso e addirittura potenzialmente letale se scagliato o sbattuto violentemente contro le teste dei nemici. Non per nulla questi randelli sono anche noti come "spacca teste"... Il primo dei due che presento qui (65 cm.) è probabilmente molto antico, quasi certamente risale agli ultimi decenni dell'ottocento, è di fattura Zulu o Swazi ed ha una bellissima patina variegata, più scura ed intensa in corrispondenza di un incavo, posto sulla "testa" dell'arma, destinato a contenere tabacco, probabilmente impastato in qualche modo, per caricare meglio lo spirito guerriero del soldato che utilizzava questo legno. Io l'ho avuto dalla piccola galleria inglese di Adam Prout, specializzata soprattutto in questo tipo di oggetti del Sud Africa. Il secondo, con la testa tipicamente bicolore per la venatura del legno e ornato degli altrettanto tipici wireworks di filo metallico intrecciato degli oggetti Zulu, viene anche esso dalla Gran Bretagna, che a causa dei conflitti Anglo - Zulu di cui sopra, ha una particolare concentrazione di questo tipo di oggetti, portati come bottino di guerra in madrepatria, ma è arrivato a me facendo tappa, per lunghi anni, in Germania dove l'ho acquistato dal collezionista e ricercatore etnografico Wolf Dieter Miersch; è lungo 60 cm. ed è antico quasi come il precedente, a giudicare dalla bella e densa patina del legno.
L'ultimo oggetto che presento è una staffa intagliata, anche essa proveniente dall'Inghilterra, lunga circa 80 cm, con un leopardo che caccia un'antilope da un lato e un serpente spiraleggiante dall'altro. E' di fattura Zulu - Nguni e, come gli altri bastoni, è probabilmente abbastanza vecchio.











Bibliografia:
1) Art and ambiguity. Perspectives on the Brenthurst Collection of Southern African Art.
AA. VV. - Johannesburg Art Gallery, Johannesburg, 1991
2) Ubuntu. Arts et cultures d'Afrique du Sud
AA. VV. - exh. cat. Musée national des Arts d'Afrique et d'Oceanie, Paris, 2002
3) Arte dell'Africa meridionale dalla collezione Conru
Sandra Klopper, Karel Nel, Kevin Conru - 5 Continents, Milano, 2002
4) The art of Southern Africa. The Terence Pethica collection.
Sandra Klopper, Anitra Nettleton, Terence Pethica - 5 Continents, Milano, 2007
per la problematica arte/etnografia si segnala:
1) ART/artifact. African art in Antropology collections.
Susan Vogel (a cura di) - The Center for African Art /Prestel, New York, 1988

Pende o Lele - tappi con figure







Questi oggetti sono abbastanza rari, per quanto ne so, e anche sulle pubblicazioni specializzate, perlomeno quelle in mio possesso, non ho trovato referenze significative a riguardo.
La tipologia di oggetto è ben nota: tappi di legno duro che terminano con una rappresentazione antropomorfa, in questo caso solo la testa, e che erano destinati a chiudere contenitori, in questo caso - a giudicare dalla lunghezza dello stelo e dalla patina d'uso - è probabile fossero giare allungate contenenti olio di palma o una materia grassa simile. L'inusuale deriva dalla provenienza etnica: infatti questi oggetti non sono stati prodotti nell'East Africa, come per la maggior parte dei casi di questo genere, ma nel centro della regione congolese del Kasai, probabilmente dalla popolazione Pende o da quella Lele (detta anche Leele). Facevano parte di un gruppo di 5 simili, tutti provenienti dalla galleria newyorkese di Michael Oliver, mentre un altro esemplare dello stesso tipo e provenienza si poteva vedere fino a poco tempo fa nel catalogo di un'altra galleria americana, Leslie Sacks, di Los Angeles.
Il più piccolo dei miei due, acquistati dalla galleria di Craig De Lora, misura 20 cm. mentre il più lungo 27 cm. Sono oggettini interessanti, dotati di una buona patina; la prima volta che li ho visti, in foto e non conoscendone né dimensioni né funzione, li ho "interpretati" come staffe alte più di un metro... Ma questa è una delle caratteristiche più note, e peculiari, di un certo tipo di "arte africana", che riesce a sviluppare un senso di monumentalità in chi la guarda anche a partire da pezzi di piccola dimensione.

Kwere - calebassa con figura


Vicino alla iconografia delle Mwana Hiti (come per le "dolls", abbiamo anche in questo caso il tronco della figura ridotto ad un semplice cilindro, con i seni femminili appena accennati, sormontato da una capigliatura a due creste) è il tappo di questo contenitore Kwere, vicini dei già citati Zaramo sulla costa della Tanzania che dà sull'Oceano Indiano. Questo tipo di oggetti, un tempo abbastanza comuni in Africa ma ormai - se di buona qualità - piuttosto rari, veniva usato dai "medicine men" dei villaggi per contenere sostanze "magiche", per lo più erbe polverizzate, e sono costruiti con una zucca svuotata e seccata con un tappo di legno scolpito.
Questa che presentiamo, alta complessivamente 20 cm. e dotata di una ottima patina, proviene dall'esperto tedesco Klaus - Jochen Krüger, che l'ha a sua volta acquistata da un antiquario di Nairobi (Kenia).

Zaramo - Mwana Hiti "dolls"





In Africa esistono molte etnie che, tra le manifestazioni tradizionali di produzione di oggetti che noi occidentali chiamiamo "arte africana", annoverano statuette comunemente chiamate "bambole", principalmente perché la loro fruizione è indirizzata in primo luogo alle bambine o alle ragazze di sesso femminile.


Come sempre però accade, in Africa, questo tipo di oggetti non sono mai "fini a se stessi" e non sono certo unicamente adibiti a scopi ludici o, come anche in Occidente, solo a scopi sociali, di trasmissione di una identità di ruoli sessuali all'interno della cultura di appartenenza, bensì hanno sempre anche ruoli simbolico-magici. Nella fattispecie, le "dolls" africane hanno spesso, quasi sempre, la funzione di favorire e incentivare la fertilità femminile, soprattutto nei casi in cui questa si faccia attendere anche dopo il matrimonio. Tre sono le tipologie più note di "bamboline": le Akuaba ghanesi degli Akan e dei Fante, le bambole Mossi del Burkina Faso e, appunto, queste "dolls" Zaramo della Tanzania che presentiamo in questa scheda. Come del resto anche le altre tipologie citate, anche queste Zaramo "dolls" si caratterizzano per una accentuata stilizzazione dell'immagine femminile, che al contempo richiama per la verticalità e le forme anche un'immagine fallica, costituita da un semplice tronco conico sormontato da una caratteristica cresta-capigliatura bilobata. Vera e propria sintesi di femminile e di maschile, le bambole Zaramo appartengono all'iconografia più conosciuta delle arti africane e sono tra le tipologie più note delle etnie dell'Est Africa, area valorizzata solo in epoca relativamente recente in ambito collezionistico e storico-artistico.



Questi due esemplari sono di ottima qualità, nel loro specifico ambito, e possono vantare un pedigree più che buono.


La prima, alta 20 cm., proviene dalla galleria di Craig De Lora (USA) e prima ancora dalla Jean and Noble Endicott collection; è stata pubblicata nel volume To cure and protect: sickness and health in African art di Frank Herreman (The Museum for African Art, New York, 1999) a pagina 48.


La seconda, alta solo 10 cm., viene da un'altra prestigiosa collezione statunitense, quella di John e Nicole Dintenfass di NYC, ed è impreziosita da una minutissima collanina di beads rosa, quasi microscopiche; come la prima, anche questa è stata acquistata via web da Craig De Lora tribal arts (NJ - USA).

Bibliografia

sulle "dolls":

1) Isn't s/he a doll? Play and ritual in african sculpture

Elisabeth L. Cameron, Doran Ross - UCLA, Los Angeles, 1996

2) African dolls for play and magic

Esther A. Dagan - Galerie Amrad African Arts, Montreal, 1990

3) Ritual oder Spiel? Puppen aus Afrika und Ägypten

AA. VV. - Exh. cat. Berlin- München, 2004

sugli Zaramo:

1) Mwana Hiti. Life and art of the matrilinear Bantu of Tanzania

Marc L. Felix - Fred Jahn, München, 1990

2) Tanzania

Marc L. Felix, Maria Kecskési - Kunstbau Lenbachhouse, München, 1994

3) Ostafrikanische Plastik

Kurt Krieger - SMPK, Berlin, 1990

4) Masks and Figures from Eastern and Southern Africa

Ladislav Holy - Paul Hamlyn, London, 1967

5) Glaube Kult und Geisterwelt

Ralf Schulte - Bahrenberg - Edition Phaistos, Steinheim, 2007

martedì 17 febbraio 2009

Lobi - statuette da divinazione











Queste piccole statuette, alte da 9,5 a 17,5 cm., appartengono alla categoria degli oggetti usati nei rituali divinatori.
In Africa la "divinazione" non vuole quasi mai significare una volontà di conoscere il futuro che è destinato ad arrivare ma mira ad avere un responso, positivo o negativo, su determinate azioni che il richiedente intende compiere o mira a scoprire le motivazioni nascoste del verificarsi di una determinata situazione.
Le prime quattro dall'alto provengono dalla collezione tedesca di Klaus-Jochen Krüger mentre l'ultima viene da Thomas Waigel.
La prima si connota per una buona impostazione plastica, nella piccola dimensione, e per una interessante patina mentre la seconda proviene probabilmente dall'atelier del "maestro del naso a uncino" (Katsouros, 2002).



Lobi - figure "Bateba"
















I Lobi, che sono una popolazione che vive in una zona al confine di tre stati westafricani (principalmente il Burkina Faso e anche in Ghana e in costa d'Avorio), sono una delle "tribù" che più a lungo hanno resistito alla colonizzazione degli europei, soprattutto a quella culturale, e fino a poche generazioni fa (forse fino ad oggi) hanno mantenuto vive le vecchie credenze e tradizioni, sfuggendo alla conversione alle religioni monoteistiche. Nonostante questo loro status di popolazione "selvaggia", hanno paradossalmente anche la palma di popolazione tra le meglio studiate etnograficamente e, dal primo saggio di Labouret del 1935 in poi, sono veramente tante le pubblicazioni specializzate ad essi espressamente dedicate. Inoltre, in un contesto contemporaneo in cui - come si sa ormai fin troppo bene - quasi tutte le manifestazioni tradizionali che noi occidentali abbiamo chiamato "arti africane" si sono estinte o sono radicalmente mutate, nella odierna cultura Lobi sono rintracciabili ancora momenti rituali tradizionali immutati e la produzione di oggetti di culto che possono essere considerati "autentici". Pertanto la equazione, quasi sempre valida, tra antichità del pezzo e sua autenticità in questo particolare e raro caso non è condizione del tutto vincolante. Se aggiungiamo a questo anche il fatto che gli scultori Lobi non sempre sono degli specialisti del settore ma il più delle volte sono semplici abitanti dei villaggi alla ricerca di oracoli divinatori o di protezione contro le forze invisibili e ostili degli spiriti che in prima persona, dietro le indicazioni dei medicine men, scolpiscono gli oggetti degli altari da venerazione personali, allora comprendiamo bene come la produzione di questa etnia sia non solo molto copiosa ma anche molto diseguale nei diversi livelli qualitativi; insieme a (pochi) pezzi antichi e dotati - nei migliori dei casi - di una forza plastica ieratica degna delle migliori statue Dogon, si trovano innumerevoli sculture di livello medio e medio-basso, rozze nell'intaglio e "appannate" nella concezione generale, spesso di produzione molto recente. E, naturalmente, oltre a queste anche molte sculture che rientrano decisamente più nel semplice artigianato che nel novero delle manifestazioni estetiche.
Per tutti questi motivi, soprattutto la facile reperibilità anche in epoca contemporanea e le valenze artistiche a volte modeste, la scultura Lobi - se paragonata a quella di etnie più considerate - è ancora abbstanza "economica" sul piano collezionistico e anche i maggiori capolavori non superano quotazioni che sono inferiori di molti ordini di grandezza rispetto a quelli dei Fang o dei Dogon, tanto per fare due nomi... La piccola statuaria poi, che ancora oggi fuoriesce dai villaggi Lobi con una certa regolarità, ha prezzi decisamente accessibili in relazione al livello di qualità intrinseco dei pezzi stessi.
I più comuni esempi di figure scolpite dei Lobi sono i cosiddetti Bateba (o Buthiba), statuette di media dimensione che, nelle loro diverse tipologie, rappresentano i Thila (sing. Thil), una sorta di incarnazione animista di entità spirituali della natura.
Tra la numerosa bibliografia che riportiamo in calce, i testi di riferimento (Meyer 1981 e Bognolo 2007) concordano sostanzialmente, anche se con una terminologia leggermente diversa, nell'individuare tre categorie di sculture antropomorfe: le grandi figure di antenati, le immagini dei Thila di media dimensione e le piccole statuette utilizzate per la divinazione; se solitamente le prime due tipologie hanno patine "secche" o crostose sacrificali, le figurine da divinazione hanno una patina d'uso dovuta alle ripetute manipolazioni.
Questi primi due pezzi che presento sono Bateba phuwe, secondo la terminologia di Meyer, e cioè Bateba "ordinari", che proteggono dalla stregoneria i titolari degli altari dove sono custoditi con un atteggiamento statico e minaccioso, pronto alla reazione.
La prima statua, alta 23 cm., è nel classico Kampti style, anche detto Tinkhiero, presenta la tipica postura ieratica marziale fissa e rigida, con lo sguardo fisso "nell'invisibile" e le labbra a piattello. Proviene dalla collezione americana di Noble and Jean Endicott e io l'ho acquistato da Craig De Lora (NJ - USA); probabilmente risale a 40/50 anni fa.
La seconda statua, 26 cm., è connotata invece dalla bella patina sacrificale crostosa e dal ritmo generato dall'alternanza di forme triangolari e rettangolari, con una buona armonia di volumi. Viene dalla collezione tedesca di Thomas Waigel ed è forse risalente alla prima metà del novecento.
Bibliografia:

1) Kunst und Religion der Lobi
Piet Meyer - exh. cat. Rietberg Museum, Zurich, 1981
2) Lobi
Daniela Bognolo - 5 Continents "Visions of Africa", Milano, 2007
3) Images d'Afrique et Sciences sociales. Les pays lobi, birifor et dagara.
Michèle Fiéloux, Jacques Lombard avec Jeanne-Marie Kambou-Ferrand (sous la direction de) - Karthala-Orstom, Paris, 1993
4) Negro Sahara
Arnold Heim - Verlag Hans Huber, Bern, 1934
5) Sculptures des Trois Volta
Gabriel Massa, Jean-Claude Lauret - Sepia, Paris, 2001
6) Lobi. Chez les devins du pays lobi. L'art de découvrir les choses cachées.
Burkhard Gottschalk - Verlag U. Gottschalk "Africa incognita", Düsseldorf, 1999
7)Handwerk und materialisierte Kultur der Lobi in Burkina Faso
Klaus Schneider - Franz Steiner Verlag, Stuttgard, 1990
8) Lobi Skulpturen aus der Kollektion Katsouros
Floros und Sigrid Katsouros - Ethnographica, Hannover, 2002
9) Anonyme Schnitzer der Lobi
Floros und Sigrid Katsouros, Stephan und Petra Herkenhoff - Ethnographica, Hannover, 2006
10) Die Lobi Sammlung Peter Loebarth
Floros Katsouros - Ethnographica, Hannover, 2007
11) Skulpturen der Lobi
Franz Armin Morat, Bernhard Strauss - Morat-Instituts, Graz, 2000
12) La tribu Lobi
Jean-Camille Haumant - Presses Universitaires de France, Paris, 1929
13) Art africain et esthetique occidentale. La statuaire lobi e dagara au Burkina Faso.
Roger Somé - L'Harmattan, Paris, 1998
14) Scultura africana. Omaggio a André Malraux.
Jacques Kerchache - De Luca editore / Arnoldo Mondadori editore, Roma-Milano, 1986
15) Art of Upper Volta from the Collection of Maurice Bonnefoy
Donald B. Goodall - The University of Texas, Austin, 1976
16) Traditional sculpture from Upper Volta
Norman Skougstad - The African - American Institute, New York, 1978
17) Lobi sculpture
Irwin Hersey - Craft Caravan gallery exh. - New York, 1980
18) Magie Lobi
Julien Bosc, Max Itzikovitz - Galerie Flak exh., Paris, 2004
19) Land of the Flying masks. Art and Culture in Burkina Faso. The Thomas G.B. Wheelock Collection
Christopher D. Roy, Thomas G. B. Wheelock - Prestel, Münich-Berlin-London-New York, 2007
20) Art of the Upper Volta rivers
Christopher D. Roy - Chaffin, Paris, 1987
21) Lobi
Bruno Frey, François Warin - Exhb. cat., Centre Culturel de Rencontre Chateau du Grand Jardin, Joinville, 2007

Fra i tanti articoli pubblicati su riviste specializzate o in opere composite segnaliamo almeno:

1) 'Le jeu des "fetiches". Signification, usage et rôle des "fetiches" des populations lobi du Burkina Faso' in Arts d'Afrique noire 75 e 76, 1990
Daniela Bognolo
2) 'La représentation de l'invisible au Burkina Faso' in Arts d'Afrique , C. Falgayrettes-Leveau (ed.) exh. cat. Musée Dapper, Paris, 2000
Daniela Bognolo
3) 'La statuaire Lobi et celle des peuples apparentés' in Tribal arts, 1, 1994
Claude Henri Pirat
Importante referenza tra i cataloghi d'asta è
African art from the collection of Rene and Mercedes Lavigne - Christie's, London, 24 march 1988

Per quanto riguarda i bronzi rimandiamo ad una bibliografia specifica.

Tra le opere che non sono in nostro possesso segnaliamo due fondamentali referenze etnografiche:

1) Les Tribus du rameau lobi
Henri Labouret - Institute d'Ethnologie, Paris, 1931
2) Les Lobi, tradition et changement
Madeleine Père - Siloe, 1988 (2 vol.)

un volume sull'arte

1) L'art traditionelle Lobi / Lobi traditional art
Giovanni Franco Scanzi, Milano, 1993
e tre importanti cataloghi di gallerie antiquarie:
1) Les Lobi
Jean-Dominique Rey - exh. cat. Galerie Kerchache, Paris, Maggio 1974
2) Haute-Volta
Henri Kamer - De Rache, Bruxelles, 1973
3) Thila
Bernard Dulon - exh. cat. 2004

martedì 10 febbraio 2009

Yaka pettine






A nord e a ovest dei Suku, sempre nella zona sudoccidentale della RDC, vivono gli Yaka. Come i primi citati, anche questa ultima popolazione utilizza grandi maschere - casco e sculture di potere, un tempo impropriamente dette feticci, a scopo rituale e protettivo. Oltre a questa produzione "maggiore" sono abbastanza frequenti oggetti utilitaristici caricati di "presenza" estetica e tra questi ultimi spiccano proprio i pettini.
D'altronde quella area è forse, insieme a quella ghanese degli Akan, quella considerata di maggior pregio per questo tipo di oggetti, basti pensare ai pettini dei Chokwe e popolazioni connesse e limitrofe.
Questo piccolo pettine, alto 14, 5 cm., proviene dalla prestigiosa collezione americana di Ernst Anspach - di cui porta ancora un numero di inventario (1417) ed è un esempio particolarmente tipico della produzione Yaka, oltre che essere un oggettino suggestivo e deliziosamente raffinato. Probabilmente risale alla fine del 19° secolo o ai primi decenni del 20°, è di legno molto duro ed è dotato di una patina rossiccia oleosa. Io l'ho avuto dalla galleria di Craig De Lora solo qualche mese fa.

Suku - Holo pettine con figura




Per lungo tempo tra gli appassionati di arti extraeuropee c'è stato dibattito su cosa dovesse e potesse essere definito "arte", tenendo sempre in mente naturalmente che la categoria estetica occidentale è solo applicata ermeneuticamente e, per così dire, posticciamente ad una "essenza" che ha caratteristiche alquanto differenti, e cosa invece fosse da considerare solo "testimonianza" etnografica. Senza entrare più approfonditamente nel merito, anche perché il problema è particolarmente complesso e forse ancora insoluto, dirò qui che per lungo tempo c'è stata una distinzione abbastanza netta, anche in termini economici e collezionistici, tra maschere e statue rituali, considerati oggetti artistici, e oggetti "d'uso", come appoggiatesta, pettini, serrature e altro ancora, che venivano trattati un po' come la serie B (o meno ancora...)
Però negli ultimi anni, e in modo particolare dopo l'uscita nel 2000 del volume di Marc Ginzberg Africa. Arte delle forme, c'è stata una indubbia rivalutazione delle "forme" del quotidiano, effettivamente spessissimo nelle arti africane caricati di evidenti valenze estetiche, anche se a volte si ha un po' la sensazione che in termini di fruizione si sia voluto forse spostare la focalizzazione dal concetto di "arte" a quello di "design".
Poi c'è la via di mezzo, come ebbe occasione di ribadire recentemente in una conferenza pubblica il grande "vecchio" della critica d'arte africana italiana, Ezio Bassani: oggetti d'uso ma con particolari plastici antropomorfi o zoomorfi, considerati forse non della stessa importanza delle figure "di potere" ma quasi.
L'oggetto che presento in questa scheda appartiene a questa schiera ed è una della acquisizioni più recenti della mia collezione. Si tratta di un pettine, dotato di una ottima patina d'uso e dovuta all'età, scolpito in zona Repubblica Democratica del Congo (Congo Kinshasa) sud-ovest al confine con l'Angola dalla popolazione Suku o da quella Holo (in quella area i tratti stilistici si sovrappongono, i villaggi delle due popolazioni sono interpolati e non è di fatto possibile fare sempre una precisa attribuzione etnica.)
Ne sono molto orgoglioso - oltre che piacermi molto per la sua indubbia qualità e per la sua carica estetica - perché proviene da quella che è stata forse la più importante collezione degli ultimi decenni per quanto riguarda i pettini, la William W. Brill collection, esitata in asta a New York il 17 novembre 2006 da Sotheby's (il mio oggetto era il numero 155b, pubblicato a pagina 161 del catalogo). Io l'ho avuto da una piccola e vitale galleria americana, Craig De Lora Tribal arts del New Jersey, da cui ho acquistato numerosi piccoli oggetti nel corso di questi ultimi anni, sempre per corrispondenza telematica supportata da pronte e veloci spedizioni intercontinentali e dal dollaro basso di questi ultimi anni...
E' alto 21 cm. ed è presente nell'archivio dell'Università di Yale di Guy van Rjin al numero 0075000-01.
Bibliografia:
1) Art of the Yaka and Suku
Arthur P. Bourgeois - Chaffin, Meudon, 1984
2) The arts of Zaire. Volume 1 - Southwestern Zaire
Daniel Biebuyck - University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1985
3) Africa. Arte delle forme
Marc Ginzberg - Skira, Ginevra - Milano, 2000

lunedì 9 febbraio 2009

Luba Shankadi - strumento da divinazione Kashekesheke


E' il secondo oggetto di qualità che ho acquistato, in ordine di tempo.

Lo avevo notato tra le foto del sito web di una delle poche gallerie italiane che trattano oggetti di sicura autenticità, Denise e Beppe Berna di Bologna, e ne chiesi dapprima ulteriori informazioni via email per poi visionarlo dal vivo a Bologna.

Oggetto piccolo ma di buona qualità e con ottima provenienza, la famosa galleria parigina di Helene Leloup (quando ancora si chiamava Kamer e la gestiva insieme all'ex marito Henry), questo strumento "da divinazione" viene dalla popolazione congolese dei Luba, sottoetnia Shankadi (come si può facilmente desumere dalla capigliatura tipica "a cascata") e veniva utilizzato come mezzo per ottenere risposte a domande specifiche: il richiedente impugnava l'oggetto da una delle due estremità, altra delle quali veniva saldamente stretta dall'indovino; il pezzo, tenuto quindi dai due individui dalle due parti opposte, veniva poi sfregato vigorosamente sopra una superficie e dal tipo di rumore prodotto o dal maggiore o minore attrito si traevano auspici favorevoli o negativi a riguardo della problematica sollevata.

Il suo nome in lingua Luba è "kashekesheke", è di legno molto duro ed è alto 14 cm.

Provenienza: Helene Kamer; Denise e Beppe Berna


Bibliografia:

1) Memory. Luba art and the Making of History
Mary Nooter Roberts, Allen F. Roberts - The Museum for African Art, New York; Prestel, Munich; 1996

2) Luba. Aux Sources du Zaire
François Neyt - Editions Dapper, Paris, 1993

3) Luba
Mary Nooter Roberts, Allen F. Roberts - 5 Continents "Visions of Africa", Milano 2007

4) The Artist's Eye, the Diviner's Insight: African Art in the Barry D. Maurer Collection
John Pemberton III - Mead Art Museum, 1998

5) Art and Oracle. African art and rituals of Divination
Alisa LaGamma, John Pemberton III - The Metropolitan Museum of Art (catalogo di mostra), New York, 2000

domenica 8 febbraio 2009

Fon - Venavi singolo




Un altro gemellino, questa volta dai Fon del Benin, e sempre dalla medesima fonte (Sylvain Pette) del precedente.


Ewe - coppia Venavi


I Venavi sono il corrispettivo "povero", in termini di inventiva e di raffinatezza, degli Ibeji degli Yoruba. Infatti, come nel caso delle succitate sculture di gemelli della più nota polazione nigeriana, anche i venavi degli Ewe (Togo e Ghana) e dei Fon (Togo e Benin) rappresentano coppie di gemelli deceduti o singoli a significare un gemello superstite (rare ma non impossibili da trovare le "triplette" o addirittura i gruppi di quattro, vista la propensione genetica che esiste in queste popolazioni per i parti multipli).
Fino ad oggi i Venavi, per la loro relativa rozzezza di esecuzione e per la loro presenza comune, non sono stati particolarmente considerati nel panorama del collezionismo di arti africane, ma si poteva certo dire lo stesso fino a pochi decenni fa anche per gli oggi apprezzati e ricercati Ibeji. Alcune recenti pubblicazioni e la impossibilità di reperire ancora odiernamente in situ pezzi antichi e autentici di maggior pregio hanno infatti fatto salire l'attenzione dei collezionisti per questo genere di oggetti e mentre alcuni affermano che, a causa delle loro intrinseche "debolezze" estetiche, non potranno mai assurgere a livelli troppo alti, altri commentatori scommettono che nel giro di qualche anno i migliori esemplari diventeranno ambiti come gli Ibeji di pari qualità...
La recentissima pubblicazione del tedesco Henricus Simonis in particolare ne evidenzia le tipologie più importanti e significative e fa capire come, anche in questi oggetti finora disprezzati dagli appassionati, si possa parlare di qualità. Come si è detto sono diverse le popolazioni che lungo la costa del Golfo di Guinea utilizzano questo tipo di oggetti e negli effetti quelli che noi collezionisti chiamiamo tutti "Venavi" prendono il nome di Hohovi tra i Fon, Venavi o Venovi tra gli Ewe al centro della regione in questione e Ewewo tra gli Ewe dell'ovest, al confine tra Togo e Ghana e nel Ghana stesso; nella zona a Est, a confine con la Nigeria, sono evidenti le influenze Yoruba (di solito i piedi delle statuette sono uniti da una base, come per la maggior parte degli Ibeji), mentre nella zona a Ovest sono invece manifeste le influenze dei ghanesi Akan (i piedi sono staccati e spesso calzano degli "scarponcini" dipinti di nero o di rosso).
Questa coppia femminile Ewe (dal Togo al confine con il Ghana) è abbastanza tipica di una delle tipologie più frequenti ma presenta una buona patina, una ottima integrità (uno dei più importanti criteri per giudicare queste statuette, intagliate in un legno leggero e poco duraturo, è infatti proprio la mancanza di rotture o deficit troppo evidenti), e sono complessivamente due oggetti di discreta qualità. Sono stati acquistati da un collezionista e venditore francese, Sylvain Pette, che risiede abitualmente molti mesi all'anno in Togo.
Bibliografia essenziale:
1) Ewe twin figures
Enricus Simonis - Verlag W. König, Köln, 2008
2) Twin figures from West-Africa
introd. di Wulf Lohse - catalogo di mostra - Washington, D.C., LM Editions, 1981
3) Isn't she a doll? Play and ritual in African sculpture
Elisabeth Cameron, Doran Ross - UCLA, Los Angeles, 1999
4) African dolls for play and magic
Esther A. Dagan - Galerie Amrad African Arts, Montreal, 1990

Gola - Maschera - casco Bundu










Cominciamo quindi con il primo pezzo "serio" che ho acquisito, ormai alcuni anni fa: una maschera casco Bundu della popolazione Gola (Liberia).

Contrariamente a quanto accade con la quasi totalità dei pezzi di tutte le tipologie e provenienze africane, in questo settore, le maschere Bundu in particolare ma più in generale tutti gli oggetti che vengono da Liberia e Sierra Leone, il collezionismo italiano è particolarmente importante e questo si spiega per il fatto che queste due regioni africane non sono state "saccheggiate" nella prima metà del '900 dal colonialismo francese, inglese, belga o tedesco e, quindi, dopo la seconda guerra mondiale si presentavano come territori relativamente vergini per la raccolta di pezzi autentici e antichi. In concomitanza con questo fattore, bisogna ricordare come dagli anni '60 in poi molti imprenditori, commercianti e costruttori italiani si recarono in quei luoghi per lavoro e alcuni di loro, ricordiamo solo il nome di Mario Meneghini per fare un esempio, riuscirono in breve a diventare veri e propri punti di riferimento internazionali per gli oggetti artistici di quei paesi. Ancora oggi in Italia si concentra una densità notevole e inusuale, se la si compara con la situazione di paesi a più alta vocazione collezionistica come la Francia o gli USA, di pezzi dei Mende, dei Bassa, dei Vai, di piccole statuette in pietra dei Kissi o dei Sapi o, per l'appunto, di maschere - casco della società secreta Sande, l'unica del genere di appartenenenza solo femminile, i "Bundu-devils" dei Mende, dei Vai e dei Gola.

La mia Bundu è - come dicevo - dei Gola ed è quindi più stilizzata rispetto a quelle dei Mende, che presentano più frequentemente elaborate capigliature scolpite. Fino dalla prima volta che la vidi, in occasione di una mostra espressamente dedicata a questi suggestivi oggetti (Signore d'Africa. Maschere della società femminile Bundu) presso la bella e piccola galleria veronese Etnie, mi innamorai del suo aspetto veramente ultraterreno, con lo "sguardo" a cercare l'invisibile, ma inizialmente me ne disinteressai quasi. Poi, anche riguardandola bene sul piccolo catalogo, ne focalizzai meglio i valori estetici, per me decisamente notevoli, nonostante una leggera asimmetria di altezza tra le due corna, e alla successiva proposta di acquisto da parte del buon Alberto, non riuscii letteralmente a dire di no.

E' come dicevo il primo pezzo autentico che ho acquistato e, quindi, ne sono affezionato ancora oggi in modo particolare; la sua qualità intrinseca è comunque credo di ottimo livello e risulta ancora una delle punte "di diamante" della mia piccola collezione.

Proviene, come si è detto, dalla galleria Etnie di Verona e, ancora prima, dalla collezione di Giorgio Maragliano (Roma). E' nell'archivio telematico dell'Università di Yale, gestito da Guy van Rijn, al numero 0068321~01 e 02; è alta complessivamente 44 cm. ed è di legno patinato in nero lucido; secondo il database di GvR viene dal workshop numerato con il 63.
E' stata esposta nella mostra di cui sopra ed è stata pubblicata nel relativo catalogo (2003); era inoltre il pezzo scelto per i manifesti e le locandine della mostra stessa.

Bibliografia (in ordine di importanza):

1) Representing woman. Sande Masquerades of the Mende of Sierra Leone
Ruth B. Phillips - UCLA, Los Angeles, 1995

2) Radiance from the waters. Ideals of Feminine Beauty in Mende art
Sylvia Ardyn Boone - Yale University Press, 1986

3) Bundu. Busch-teufel im Land der Mende
Burkhard Gottschalk - Verlag Gottschalk "Africa incognita", Düsseldorf, 1990

4) Signore d'Africa. Maschere della società femminile Bundu
Alberto Maccacaro - catalogo dell'esposizione alla galleria Etnie, Verona, 2003

5) Collecting African Art in Liberia and neighboring Countries. 1963-1989
Mario Meneghini - Nicolini editore, 2006

6) Sande. Masks and statues from Liberia and Sierra Leone
Daniel Mato, Charles Miller III - Galerie Balou, Amsterdam, 1990

sabato 7 febbraio 2009

Le ragioni di una collezione

















Tutto cominciò poco prima delle feste di Natale del 2002...



Ero tornato a Parma proprio quell'anno dopo otto anni passati a Sondrio; solo in quella provincia infatti avevo trovato modo di fare le mie prime supplenze con solo i punti di laurea e di servizio militare. In Valtellina ero stato bene: tanti amici, che ancora sono per me preziosi, e un contesto sociale che mi aveva dato la possibilità di fare cose che non ero mai riuscito a fare in precedenza, al di là dell'insegnamento, come gli anni passati a scrivere di enogastronomia e di cultura sui giornali valtellinesi, che mi avevano fruttato persino una tessera da giornalista "vero", ancorché - ovviamente - solo pubblicista. Però la mia vita non la volevo trascorrere in Valtellina e così, non appena si erano verificate le condizioni sufficienti, ero ritornato nella "mia" Parma, e metto l'aggettivo tra virgolette perché la città dove sono cresciuto suscita e susciterà sempre in me, a seconda dei momenti e dei periodi, umori del tutto contrastanti, che vanno dall'amore orgoglioso all'odio sfrenato...

Comunque... tornando a quanto stavo raccontando, nell'anno 02-03 prendo servizio come docente, ancora precario, presso il Liceo Scientifico "Marconi", dove ero stato come studente e dove sono ancora oggi, passato di ruolo per fortuna da qualche anno, a (tentare di) insegnare Italiano e Latino. Tra gli studenti di quell'anno spiccava un ragazzo ghanese, appena arrivato in Italia grazie ad un ricongiungimento famigliare e assolutamente privo di qualsiasi competenza linguistica in Italiano. Oggi questo sarebbe un problema abbastanza comune e, per fortuna, in questi anni la scuola italiana si è attrezzata per cercare di superare questo tipo di situazioni con percorsi integrativi e personalizzati, ma allora io, come anche tutti i miei colleghi, ero assolutamente non preparato ad affrontare una realtà didattica di quel tipo, soprattutto in un Liceo scientifico, che è ancora un tipo di scuola che propone contenuti "alti" e/o comunque non elementari.
Al di là dei problemi didattici comunque, quello che mi disorientava in quel ragazzo mite ed rispettosissimo era l'evidente fatto, che intuivo istintivamente più che comprendere razionalmente, che quel giovane ghanese aveva un sistema di pensiero totalmente diverso da quello che ero abituato a riconoscere negli studenti italiani, delle modalità di collegare tra loro i fatti, delle chiavi logiche di interpretazione della realtà che erano evidentemente molto, molto diversi dai miei e da quelli dei ragazzi italiani (tra le altre cose, quel ragazzo è balzato oggi alla ribalta della peggiore cronaca: si tratta infatti di quell'Emmanuel Bonsu che è stato recentemente picchiato e insultato da alcuni vigili urbani di Parma, oggi indagati con l'aggravante dei motivi razziali...)

Allora mi viene la curiosità di conoscere un po' di più la cultura africana, io che non mi ero mai interessato per nulla ad Africa e africherie. Leggo, faccio un po' di ricerche sul web, mi predispongo, per così dire, alla tempesta che stava per arrivare...
Infatti tutta la mia vita è stata fatta, finora, di grandi passioni, che qualcuno potrebbe anche chiamare hobbies, ognuna delle quali ha avuto un picco massimo di interesse - che è a volte una vera e propria fase di passione furiosa stile "tempesta" - e una fase, più o meno lunga, di lenta discesa fino a stabilizzarsi in uno status di "esperienza vissuta". Da quando riesco a ricordare ho accumulato nel mio bagaglio di vita la collezione di francobolli, la passione per il baseball, la musica pop-rock, la moda firmata (di questo, oggi, un po' mi vergogno...), la musica lirica (anche cantata...), i cani, i Bonsai, i vini di qualità e, ora, le arti africane, passione ultima e quella che per ora regge ancora alla grande.
Insomma, poco prima del Natale 2002, con in testa questi pensieri e questa predisposizione, vedo al mercatino natalizio sotto casa mia una bancarella di senegalesi con maschere e sculture "africane": oggi, naturalmente, so che erano "fakes" ma allora rimasi incantato a guardare quegli oggetti e ne acquistai subito di impulso tre (potere delle tredicesime...), una pseudo maschera pseudo-Punu, un'altra maschera bianca pseudo-non-si-sa-cosa e una maschera casco pseudo-Igbo. Per qualche mese resto soddisfatto del misfatto e credo che la maggior parte dei collezionisti italiani di arte africana, perlomeno quelli della mia generazione, sia come me passata sotto le forche caudine dei bancarellari senegalesi, compiendo il peccato originale dell'incauto acquisto di ciarpame fasullo. Poi mi metto a cercare ulteriori notizie mediante internet ma i primi "punti di riferimento" in cui incappo non sono quelli giusti: siti commerciali americani, pieni di copie e falsi, e siti italiani che risultano - anche volendo ammettere la buona fede, ammessa e non concessa...- del tutto fuorvianti.
Mandando una richiesta di informazioni proprio ad uno di questi ultimi siti citati, ricevo una risposta gentilissima ma piena di dati sbagliati, che davano tra l'altro per "buoni" e autentici i poveri mascheroni che avevo in casa. Poi ricevo una email di invito a partecipare ad un news-discussion group su yahoo da parte del moderatore di questo ultimo: si chiamava Piercarlo Saino, era un medico torinese appassionato di Arti africane e aveva aperto questo gruppo, dopo un'analoga esperienza in lingua inglese sempre su yahoogroups, che vedeva un buon numero di iscritti e discussioni aperte e interessanti. Mi iscrivo e, sinceramente, comincia ad aprirmisi un mondo: leggendo anche i post precedenti ho per la prima volta notizie valide ed interessanti sull'argomento che tanto mi incuriosiva, comincio a capire le differenze tra "autentico" e non autentico, comincio a costruire una base seria di bibliografia sul settore, come si sa quasi tutta non in italiano.
Purtroppo appena arrivo io il gruppo, che oggi non è più attivo e che si chiamava "arte africana", dopo accessissimi scambi di vedute tra opposte tendenze si spacca e tutti i fautori dell'autenticità come punto imprescindibile di partenza per ogni serio discorso si allontanano in polemica con altri soci più "possibilisti". A posteriori affermo che la scelta dei puristi della diaspora era l'unica possibile e la più giusta da fare: se di "arte" si vuole trattare e discutere, non ci si può confondere con chi confonde, o per ignoranza o per malafede, i capolavori con gli oggetti da mercatino... Sotto la guida di Vittorio Carini, già notissimo collezionista e studioso, viene dunque fondata la nuova lista di discussione, denominata artesafricanae dal titolo di un vecchio libro di antropologia, che ha per qualche anno convissuto con la precedente, poi sparita per "consunzione".
Il nuovo spazio di discussione, a cui dopo qualche mese anche io mi iscrivo, mantenendo la doppia iscrizione fino alla fine, si delinea subito come una palestra più impegnativa ma certamente alla lunga molto più proficua e più soddisfacente.
Inoltre proprio nell'autunno del 2003 a Torino Ezio Bassani mette in opera una grande mostra di veri capolavori, Africa, capolavori da un continente, e io, durante uno dei miei periodi piemontesi a casa di mio padre, cedo definitivamente al fascino di queste manifestazioni artistiche restando letteralmente folgorato davanti allo Nkisi del Tervuren, o ai Dogon a patina rossa ex Goldet, o alla Dan del Dapper, o alla Bangwa dancing queen...
Comincio così un percorso che oggi, dopo sei anni, mi ha portato ad accumulare una grossa biblioteca sull'argomento (a tutt'oggi 534 opere tra volumi, riviste e cataloghi) e cominciare una collezione di oggetti autentici.
Purtroppo, non essendo dotato di mezzi economici consistenti, gli oggetti importanti (per intenderci, quelli che da Sotheby's vengono battuti a suon di centinaia di migliaia di euro) mi sono "naturalmente" preclusi ma, nel mio piccolissimo, io sono ragionevolmente soddisfatto di quanto sono riuscito a costruire e - soprattutto - sono molto contento del grado di competenza, ancora del tutto in divenire, che sono riuscito a raggiungere con l'aiuto dei miei amici di lista italiani e dei tanti corrispondenti stranieri, tedeschi e americani in primo luogo, che ho conosciuto nel corso di questi anni. Tra i primi voglio ricordare, oltre al già citato preziosissimo Vittorio, anche il carissimo Umberto Giacomelli, che qualche anno fa mi vendette due dei suoi più bei Teke, il simpatico e burbero Elio Revera, che in pochi anni ha costruito una delle collezioni top in Italia, e tutti gli altri da Marco ad Alessandro, da Michele a Gigi, da Beppe a Giancarlo, da Davide a Piercarlo.
In questo blog vorrei mostrare alcuni dei pezzi della mia collezione, raccontando come ne sono venuto in possesso e tutto insomma quello che mi hanno "detto" e che ancora mi "dicono".
Aggiungo, a suggello di questa lunga prolusione introduttiva, i riferimenti del gruppo "artesafricanae" e l'indirizzo web del sito che i partecipanti al gruppo, me compreso, hanno successivamente implementato:

ArtesAfricanae@yahoogroups.com

http://www.artesafricanae.org/